Tortino di verdure al forno

Sudatissima, guardare un video live di Gabbani in cui gronda sudore.
L’Inception dell’adrenalina mattutina sull’isola dei Kaiju.

Chi coglie coglie, chi non coglie va bene uguale.

Mi sveglio ed il mio cervello viene bombardato da imput che non sa come organizzare. I corridoi, le stanze vuote, i ponti che danno sul vuoto e tutte le città ridotte in macerie di Blame! si mescolano ai versetti di Isaia; il discorso della Montagna riecheggia lì, dalle profondità di quei templi dell’umanità che più non è e che Tsutomu Nihei ha cercato di (non) rappresentare.
Nei suoi disegni vi è più oscurità che chiarezza. Mostri umani, umani mostri. Tratto sporco. Storia minimale. La felicità o la letizia assomigliano sempre più ad un sorriso di un gatto che non c’è.

Sulla vetta del mio Sagarmatha scruto i confini della mia idiozia. Non li vedo. Se ci sono, sono lontanissimi. Non ho gli strumenti per sapere se prima o poi mi emanciperò da questo mio essere.
Come Vonnegut penso che il mio me sia sunto di squilibri chimici.

Almeno loro si drogavano, io manco questo.

Alle dieci del mattino ormai l’adrenalina pompa e può mutare in creatività come in odio profondo. La metà del pomeriggio è il declino dell’esistenza, la sera è scandita da depressa malinconia e stanchezza.
Poi si ricomincia. Alle cinque. Con l’alba che non grida, ma mi sveglia dandomi in pasto a tutto questo mondo giunonico.

La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. No, non è mia. Quando mai. No, non è Jim Morrison.

Un indizio.

La creatività scalcia e spinge. Io, derivativa che son io, derivativa che non sono altro. Così come tutti quelli che si arrabattano a produrre e si affrettano ad autoproclamarsi Creatori di Contenuti. Contenuti che escono da altri e fluiscono in noi: siamo solo narratori di un mixtape composto da un tutto già visto che tramite la nostra voce diviene altro.
Cito in maniera esplicita Einstein, anche se è solo il 400esimo riferimento culturale di questo post: il segreto della creatività è nascondere le proprie fonti.

#doctor who from seven deadly sins

Sì, 400, giuro.

Mentre scrivo mi scassano i coglioni.
Mentre riposo mi scassano i coglioni.
Io non devo esistere, se non in funzione di.
O almeno questa è la pretesa altrui.
Eppure non è così, col cazzo che è così. Esisto e sento premura di lanciare in giro le cose belle che raccatto. Un peccato custodirle come un tesssssoro morboso.

#dwedit from may we meet again.

Non farci caso

Mi immagino quelli che scrivono, girano video, parlano. Accumulano stupore, lo generano in altri. Piccole scorciatoie antropomorfe di cultura, biniamini involontari di stralci dell’animo umano.
A me non basta, eppure sono nient’altro che questo.
Mi chiedo se la pesantezza di essere così finiti (così limitati) schiacci anche gli altri. Quando riversano sulla loro piattaforma preferita il loro urlo domandato al multiverso (carico ergo sono?), la percepiscono questa sensazione di inutilità?
L’amore per le cose che però non escono DAVVERO da se stessi?

#sonic the hedgehog from is it really that time again?

No, eh?

Ma poi penso che sono io.
Che il primo uomo che disegnò un animale sulla grotta era già derivativo. Dipingeva quello che vedeva. Raccontava il sé intorno a sé.

A volte penso che allora è meglio piantar patate. Scavare, sporcarsi le mani, annusare l’erba e il proprio sporco nato dal lavoro.

Che ci riempiamo mente e cuore di saggi, libri, cultura solo per dare risposta alla domanda solita, quella del Ma perché sono Io? Perché Sono? Sono, poi?
Nessun libro ci aiuta. Impariamo ad argomentare, a dialogare con il proprio spirito, tuttavia non sappiamo riconoscere la domanda dalla risposta.

#ghibliedit from away we go

Ci gira anche un po’ la testa.

Dopo tanto accumulare nozioni alcuni – io, se non altro – tornano alle radici.
Al coltivare patate.
Le domande sono le stesse per tutti, sia che citi Platone sia che invece sia preoccupato per la pioggia, che è troppa o troppo poca.
Solo che ogni tanto – in anni di beatitudine – la pioggia è dell’esatta quantità che serve.
E allora Che uva! Che pomodori! Che patate, Signori!

Per noi che ci cibiamo di intelletto, invece, non c’è redenzione.

#dwedit from Daily TV and Film Gifs

E abbiamo questo sguardo qui, di sovente.

Però c’è un tortino di verdure che ora facciamo al forno.
Go, go, go! 

No, non è una frittata, almeno non per i miei standard: poche uova, molta panna, si fa pure al forno.
Ma è più buona.
Solo, va lasciata raffreddare, quindi preparati per tempo. 

Useremo una teglia con diametro da 24 cm.

Per preparare un tortino di verdure, per due persone, hai bisogno di:

  • 600 grammi di verdure miste. Io ho usato zucchina, melanzana e peperoni. Ma anche zucchine, carote, melanzane e fave;
  • 200 grammi di patate lesse (più o meno, lessane un po’ di più, non fare il braccino corto);
  • 4 uova (200 grammi);
  • 30 grammi d’olio
  • 120 grammi di panna fresca da cucina. E che sia fresca, non quell’altra monnezza;
  • prezzemolo;
  • basilico;
  • 50 grammi di pecorino romano + altri 20 (da usare in due momenti diversi);
  • una cipolla;
  • uno spicchio d’aglio;
  • sale e pepe.

RIPETO: DA FARE RAFFREDDARE. Almeno 15 minuti. Quindi non ridurti all’ultimo secondo.

Inizia lessando le patate. Devi metterle in acqua fredda salata, attendere il bollore e poi la madonna. Ci vorrà un po’: saranno pronte quando riuscirai a trapassarle da parte a parte con una forchetta.
Mentre attendi le patate, facciamo altro.

Taglia la verdura a tocchetti.
Taglia a rondelle la cipolla.

Versa in padella 30 grammi d’olio e fai soffriggere la cipolla ed uno spicchio d’aglio intero, ma scamiciato.

Quando sarà già un po’ colorata, versa le verdure.

Aggiungi il sale e poi chiudi col coperchio. Dobbiamo stufarle (fiamma bassa) e ci vorranno minimo 20 minuti. Ogni tanto apri, guarda un po’ che succede. Se dovessero attaccarsi al fondo (ma non dovrebbero) puoi anche versare una cucchiaiata di acqua.

Se decidi di usare piselli e fave, non fargli fare tutto quel tempo, perché poi fan schifo. No, aggiungili negli ultimi 5 minuti e basta.

Nel frattempo le patate sono pronte?
Pelale e tagliale a pezzetti, se riesci a rondelle spesse un centimetro o due. Se si spappolano non ha poi tutta questa importanza.

Inizia ad accendere il forno: 190 gradi, modalità statica.

Prepariamo anche il composto di uova.
In una ciotola 4 uova, 120 grammi di panna fresca, pepe. Sbatti tutto brevemente, giusto di amalgamare gli ingredienti.

Aggiungi 50 grammi di pecorino romano ed il prezzemolo. Mescola di nuovo.

Intanto le verdure dovrebbero essere pronte. Togli l’aglio e lasciale raffreddare un po’, sennò fai rapprendere l’uovo.

Aggiungi del basilico spezzettato con le mani e poi versa tutto nel composto. Mescola ancora.

Bagna la carta da forno e strizzala: riuscirai ad inserirla molto più facilmente nella teglia.
Versa ora metà del composto e distribuiscilo sul fondo della teglia.

Ricopri con le patate che hai preparato.
Aggiungi il sale sulle patate, nel caso non fossero molto saporite.

Riversa ora il resto del composto e distribuscilo bene col cucchiaio. Spolverizza con pecorino.

Ora si va in forno: 190 gradi per circa 30 minuti.
Deve essere un po’ colorato sopra e i tempi di cottura non sono precisi: intono ai 25 minuti controlla. Ecco la mia:

Fai raffreddare, che calda non sa di niente.

Dopo un’eterna attesa ecco cosa dovresti avere davanti a te:

Ciao e buon appetito!

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Torta rustica con ricotta e pomodorini

Pasta matta, pasta brisè, frolla salata. Non so cosa stiamo per preparare, so solo che uso quest’impasto per tutte le torte rustiche e secondo me è buonissimo.

E poi lo sai che non è che sia proprio interessatissima a queste formalità.

In realtà questo pippone sulla differenza dei vari impasti l’avevo già scritto in questo post qui e quindi non mi ripeterò, non è cambiato un cazzo.
Così come non è cambiato il mio invito ad evitare i rotoli di sfoglia che si comprano al supermercato, almeno ogni tanto. Sono tanto comodi quanto fan cagare e nonostante anche a me capiti di usarli, rifarsi la bocca con una roba fatta con le proprie manine di merda ci sta.

Mario, non comprare stronzate.

Ricetta a parte, questo è proprio un periodo strano. Sarà l’epidemia da fallout, saran le mascherine che non servono ad un cazzo ma che indosso lo stesso perché non si sa mai, sarà la primavera ma io mi sento irrequieta.
Alcuni giorni ho talmente tanta energia da spaccare il mondo.
Altri mi sveglio e già mi sono rotta i coglioni. Faccio trazioni e mi rompo i coglioni, alzo pesi e mi rompo i coglioni, salto la corta e mi rompo i coglioni.

Giorni in cui mi gira male, giorni in cui tutto mi sembra positivo.
Ed è TUTTO uguale. Forse TROPPO uguale. Forse da TROPPO TEMPO SEMPRE UGUALE.

Giorni in cui nel cesso trovi la verità, altri in cui non c’è niente di niente.

Cazzo deve cambiare, poi, non saprei.
E ci ho pensato tanto, in questo periodo in cui si sta come d’autunno gli alberi le foglie.
Se già di norma, per me, l’esistenza ha un sapore vacuo, figurarsi ora, che per un raffreddore sta finendo il multiverso.
Tutto quello che ho fatto, faccio e farò non ha scopo. Lo dico da sempre ed ho cercato quindi di costruire meno possibile. Costruisci per demolire? Non direi. Io qui, a fare slalom tra impegni, doveri, mondo di merda.

Per una volta che parlo di roba seria…

Poi che rimane? Non molto. Un video di Gabbani visto a ripetizione, una passeggiata a guardar gli agnelli e i cavalli e le galline e i gatti, un film francese subbato in danese (perché noi italiani abbiamo i doppiatori più bravi del mondo, quindi i sottotitoli te li scordi), elucubrazioni mentali che di norma non esterno, curiosità spesso troppo spenta per tutto quello che mi circonda.
Le giornate sono tutte uguali, i mesi sono tutti uguali, gli anni sono tutti uguali.
Manca qualcosa che non esiste e che quando esiste ha breve durata. Quindi era illusione o noia travestita (lei è brava con le imitazioni, molto brava).  E quindi cazzo lo ricerchi a fare?
Meglio stare qui ad aspettare Godot, come faccio da quando ho imparato a respirare

Ma vaffanculo va, andiamo a mangiare.
Go, go, go! 

In cucina.

Per preparare una torta rustica con spinaci e ricotta, per uno stampo da 20 cm (ma puoi riempire anche una tortiera da 24 senza cambiare dosi, verrà solo più bassa), hai bisogno di parecchie cose.

Per la base:

  • 180 grammi di farina 00;
  • 90 grammi di burro ammorbidito;
  • 2 tuorli;
  • 20 grammi d’acqua fredda;
  • 5 grammi di zucchero;
  • 5 grammi di sale.

Per il ripieno:

  • 400 grammi di ricotta;
  • 300 grammi di pomodorini;
  • sale, pepe;
  • basilico.

No, non ho alcuna intenzione di fare un copia ed incolla dell’impasto, perché l’ho scritto 4358495834059834590348 volte.
Basta che clicchi quie trovi tutte le istruzioni, passo passo.

Facciamo dunque finta che hai fatto il tuo impasto e che l’hai fatto riposare in frigo. L’hai poi steso e adesso è nella tua tortiera che attende.
Metti la tortiera in frigorifero, accendi il forno a 190 gradi e prepariamo il ripieno.

Lava i pomodorini e tagliali a metà.

Ricotta in una ciotola, inizia a lavorarla con una forchetta unendo un po’ d’acqua. Dobbiamo formare una crema spalmabile, ma non buttare dentro una secchiata d’acqua perché se la fai troppo morbida non si torna più indietro.
Un paio di cucchiaiate per volta, lavori e valuti.
Unisci anche del sale, del pepe e delle foglie di basilico spezzettate con le mani.

Ora possiamo riempire la torta, tirala fuori dal frigo e versaci dentro la ricotta. Cerca di distribuirla in maniera omogenea.

Sopra adagia i pomodorini e salali un po’.

La pasta avanzata piegala su se stessa, come se stessi rimboccando le coperte ai pomodorini.

Ora inforniamo.
190 gradi per circa un’ora, ma siccome il mondo è un brutto posto devi starci dietro già dopo i primi 40 minuti. Perché magari il mio forno è debole ed il tuo ha un’aura potentissima, quindi la torta potrebbe carbonizzarsi.

Ecco il (brutto) risultato finale:

Ma tagliato a pezzi migliora, dai:

E nel piatto, poi, fa proprio la sua porca figura:

Ciao e buon appetito!

Torta rustica con pomodorini caramellati e feta (+ spoiler a manetta su Senua’s Sacrifice, quindi leggi a tuo rischio e pericolo)

Giocare pochissimo ha i suoi vantaggi. Tipo che Hellblade: Senua’s Sacrifice mi è durato tre mesi nonostante abbia una longevità davvero davvero davvero scarsa (circa 6-7 ore).

Senua.

Difficilissimo parlare di questo titolo senza spoilerarlo e quindi ci proverò, ma fino ad un certo punto, poiché qualsiasi parola ti rovinerà l’esperienza di gioco. Il mio consiglio è di giocartelo per intero e poi passare di qui, dopo, per vedere se abbiamo avuto le stesse impressioni.
Perché non è mica un titolo banale, eh. Si impara a capirlo giocando, sbattendo la testa negli stessi angoli, sentendosi impazzire ed ascoltando della fighissima musica vikinga. 

WARNING: se ti metti a guardare con insistenza l’abisso, sai che poi l’abisso si rompe i coglioni e ti sputa.

Ho impiegato almeno tre o quattro scenari per realizzare che non ero io ad essere fuori di testa, ma che era proprio il gioco ad assecondare una certa paranoia latente. Non riuscivo a trovare le strade, mi sembrava che il panorama mutasse in maniera impercettibile, ma che cambiasse eccome. Maccccristo, sono sei ore che cerco di raggiungere quel ponte e c’era questo sentiero? Giuro che non l’avevo visto. Eppure sono passata di qui tipo 40 volte.

Reazioni comprensibili.

Poi in un ambiente particolare ho notato che delle pietre mi stavano fissando. Degli occhi spuntavano fuori dallo sfondo e sparivano, roba che se non prestavi attenzione manco li notavi. E poi quelle voci nella testa (troppe) che mi guidavano rendevano la paranoia davvero tangibile.
Lì ho capito che non ero io. Era il gioco. Il gioco che simulava, in maniera perfetta, un viaggio dentro ad una mente non proprio stabilissima.

Questo è il fulcro dell’intera esperienza: Senua è in preda ai suoi stessi fantasmi e crea un mondo di violenza, di oscurità e di terribili ansie. Fidarsi di nessuno è il vero fulcro dell’avventura, perché ogni elemento è stato creato dal suo cervello per un motivo che non posso spiegare, altrimenti si cadrebbe nello spoilerone ufficiale.

Mi vien voglia di ricominciarlo da capo.

I combattimenti sono monotoni e semplici, guidati per lo più dai fantasmi della mente. Però sono lunghi ed estenuanti e mi è piaciuta anche la scelta dei tasti (alcuni dorsali) che ti rendono proprio faticoso parare ed allontanarti. Dopo un po’, insomma, mi venivano i crampi alle mani e per me questo ha arricchito l’esperienza. Dove Senua era piena di sangue, io avevo le dita anchilosate: mi sembrava quasi un giusto paragone.

E mentre combatti, musica vichinga che ti esalti di brutto.

Una boss fight in particolare mi è piaciuta davvero. Oscura, snervante, nevrotica. Nulla è troppo grosso per essere abbattuto, basta solo volerlo e concentrarsi. In fondo è tutto un parto della mente, no? Fottutamente reale, però.
Talmente reale che è difficile capire quanto sia finzione e quanto realtà.

L’unica cosa su cui forse potrei avere da ridire è giusto il finale, ma meglio l’incertezza dello spiegone. Quindi ok anche quello.

Uno dei numerosi casi in cui se ti chiedono Sei un Dio, magari è meglio rispondere di no.

Non è un action, non è un’avventura grafica, non è un rpg. È un titolo a sé, un’esperienza unica nel suo genere, la prima per questa generazione di console. Robe che possono essere paragonate a The Shadow of Colossus ed a pochissimi altri giochi di atmosfera.

Ed il cibo di oggi è realtà è finzione? La mia bocca ed il mio stomaco dicevano che era buono e che era tangibile, ma come esserne certi… Magari Pizzakaiju è uno dei tanti sogni di Azathoth, come pure questa torta salata.

Immagine correlata

Che però era buona pure in sogno, quindi ‘sticazzi.

Erano secoli che non rubavo una ricetta ad Apriti Sesamo ed era ora che la saccheggiassi di nuovo senza ritegno: dalle sue parti si mangia sempre da Pazuzu e spesso c’è pure la feta di mezzo.
Però ho cambiato un particolare: la pasta di base l’ho preparata io, con le mie manine di merda, perché non sopporto quelle industriali (mi fanno proprio schifo e mi sembra di mangiare aria).

La preparazione della pasta di base la trovi in questo post qui, non la ripeterò oggi, se non per gli ingredienti che devi procurarti.
Ricordati che tutti gli ingredienti è sempre meglio che non siano stati ospiti del frigo: consiglio banale, ma la temperatura ambiente è quella gggggiusta per cucinare.

Go, go, go!

FAME.

Per preparare una torta rustica con pomodorini caramellati e feta, per uno stampo da 24 cm di diametro, hai bisogno di parecchie cose.

Per la base:

  • 180 grammi di farina 00;
  • 90 grammi di burro ammorbidito;
  • 2 tuorli d’uovo;
  • 20 grammi d’acqua fredda;
  • 5 grammi di zucchero;
  • 5 grammi di sale.

Per il ripieno:

  • 300 grammi di pomodorini datterini. Se non li trovi (per me ancora non è periodo) va bene qualsiasi altro tipo di pomodorino, basta che sia dolce;
  • 200 grammi di feta;
  • zucchero di canna;
  • origano, paprika dolce;
  • olio;
  • burro per ungere la tortiera.

Innanzitutto ricordati che una volta preparata la pasta della base, questa deve riposare in frigorifero per un’ora.
In questo post qui trovi tutte le informazioni che ti servono.

Ci vediamo qui tra uno schiocco di dita.

Facciamo dunque finta che tu abbia già preparato la pasta e che stia riposando in frigorifero.
Occupiamoci di tutti gli altri ingredienti.

Taglia i pomodorini a metà.
Apri la confezione di feta e sciacquala bene sotto l’acqua corrente. Asciugala poi al meglio delle tue possibilità, usando un canovaccio da cucina (pulito, non fare come tuo solito).

Adesso preleva la pasta dal frigo e comincia a stenderla, più sottile che puoi.
Accendi ora il forno, 180 gradi, modalità statica.

Imburra la tortiera e stendici dentro la tua pasta. Con delicatezza. Bucherellala ovunque con una forchetta (anche sui lati) e poi spalma un po’ di albume d’uovo. Non ho idea se la parte dell’albume serva per davvero a qualcosa, nel dubbio io quando mi ricordo lo faccio (ma quando me ne sono dimenticata, non ho visto differenza, quindi boh).

Dovremmo essere a questo punto:

Adagia i pomodorini su tutta la superficie, a pancia in su.
Condiscili con dello zucchero di canna (io lo metto col cucchiaino, senza pesarlo, un po’ su ognuno).

Sbriciola la feta con le mani direttamente nella tortiera:

Condisci il tutto con origano abbondante, un filo d’olio non tirchio ed un po’ di paprika dolce.

Richiudi i bordi:

E possiamo andare in forno.
A 180 gradi per 50 minuti. Se vedi che sopra si scurisce troppo puoi spegnere le resistenze superiori o abbassare leggermente la temperatura.

Dovresti avere ottenuto questo risultato:

Tagliala in 4 parti, così si raffredda un po’ più in fretta, che qui non c’abbiam tempo da perdere:

Ed ora parliamo brevemente del fondo.
Ancora non mi è successo di ottenere il fondo cotto ESATTAMENTE come la parte superiore. Ho chiesto agli Azzurri di Crostate, ma non ho avuto risposta.
Diciamo che prima o poi avremo il tempo perfetto per cuocere questa crostata, per ora 50 minuti sono un tempo sicuro: la pasta sarà cotta senza essere bruciata, ma sia i pomodorini sia la feta l’acqua la cacciano eccome, quindi sotto potrebbe risultare ancora umida.

Guarda:

In realtà la foto non è realistica, sembra quasi cruda e non lo era (era croccante e mangereccia), ma ancora non sono riuscita a trovare le VERE tempistiche. Appena troverò il tempo perfetto modificherò TUTTE le ricette delle torte salate, per ora parti con 50 minuti di base e se vuoi puoi anche aumentare (ma poi dipende tanto dal forno, immagino… peccato che il mio sia nuovo di pacca ed abbia ottenuto lo stesso risultato di quando usavo il rudere tradizionale).

Fammi indovinare: sei un Azzurro di Crostata, vero?

Comunque, pignoleria a parte, siamo pronti per mangiare.

Ciao e buon appetito!