Torta rustica con pomodorini caramellati e feta (+ spoiler a manetta su Senua’s Sacrifice, quindi leggi a tuo rischio e pericolo)

Giocare pochissimo ha i suoi vantaggi. Tipo che Hellblade: Senua’s Sacrifice mi è durato tre mesi nonostante abbia una longevità davvero davvero davvero scarsa (circa 6-7 ore).

Senua.

Difficilissimo parlare di questo titolo senza spoilerarlo e quindi ci proverò, ma fino ad un certo punto, poiché qualsiasi parola ti rovinerà l’esperienza di gioco. Il mio consiglio è di giocartelo per intero e poi passare di qui, dopo, per vedere se abbiamo avuto le stesse impressioni.
Perché non è mica un titolo banale, eh. Si impara a capirlo giocando, sbattendo la testa negli stessi angoli, sentendosi impazzire ed ascoltando della fighissima musica vikinga. 

WARNING: se ti metti a guardare con insistenza l’abisso, sai che poi l’abisso si rompe i coglioni e ti sputa.

Ho impiegato almeno tre o quattro scenari per realizzare che non ero io ad essere fuori di testa, ma che era proprio il gioco ad assecondare una certa paranoia latente. Non riuscivo a trovare le strade, mi sembrava che il panorama mutasse in maniera impercettibile, ma che cambiasse eccome. Maccccristo, sono sei ore che cerco di raggiungere quel ponte e c’era questo sentiero? Giuro che non l’avevo visto. Eppure sono passata di qui tipo 40 volte.

Reazioni comprensibili.

Poi in un ambiente particolare ho notato che delle pietre mi stavano fissando. Degli occhi spuntavano fuori dallo sfondo e sparivano, roba che se non prestavi attenzione manco li notavi. E poi quelle voci nella testa (troppe) che mi guidavano rendevano la paranoia davvero tangibile.
Lì ho capito che non ero io. Era il gioco. Il gioco che simulava, in maniera perfetta, un viaggio dentro ad una mente non proprio stabilissima.

Questo è il fulcro dell’intera esperienza: Senua è in preda ai suoi stessi fantasmi e crea un mondo di violenza, di oscurità e di terribili ansie. Fidarsi di nessuno è il vero fulcro dell’avventura, perché ogni elemento è stato creato dal suo cervello per un motivo che non posso spiegare, altrimenti si cadrebbe nello spoilerone ufficiale.

Mi vien voglia di ricominciarlo da capo.

I combattimenti sono monotoni e semplici, guidati per lo più dai fantasmi della mente. Però sono lunghi ed estenuanti e mi è piaciuta anche la scelta dei tasti (alcuni dorsali) che ti rendono proprio faticoso parare ed allontanarti. Dopo un po’, insomma, mi venivano i crampi alle mani e per me questo ha arricchito l’esperienza. Dove Senua era piena di sangue, io avevo le dita anchilosate: mi sembrava quasi un giusto paragone.

E mentre combatti, musica vichinga che ti esalti di brutto.

Una boss fight in particolare mi è piaciuta davvero. Oscura, snervante, nevrotica. Nulla è troppo grosso per essere abbattuto, basta solo volerlo e concentrarsi. In fondo è tutto un parto della mente, no? Fottutamente reale, però.
Talmente reale che è difficile capire quanto sia finzione e quanto realtà.

L’unica cosa su cui forse potrei avere da ridire è giusto il finale, ma meglio l’incertezza dello spiegone. Quindi ok anche quello.

Uno dei numerosi casi in cui se ti chiedono Sei un Dio, magari è meglio rispondere di no.

Non è un action, non è un’avventura grafica, non è un rpg. È un titolo a sé, un’esperienza unica nel suo genere, la prima per questa generazione di console. Robe che possono essere paragonate a The Shadow of Colossus ed a pochissimi altri giochi di atmosfera.

Ed il cibo di oggi è realtà è finzione? La mia bocca ed il mio stomaco dicevano che era buono e che era tangibile, ma come esserne certi… Magari Pizzakaiju è uno dei tanti sogni di Azathoth, come pure questa torta salata.

Immagine correlata

Che però era buona pure in sogno, quindi ‘sticazzi.

Erano secoli che non rubavo una ricetta ad Apriti Sesamo ed era ora che la saccheggiassi di nuovo senza ritegno: dalle sue parti si mangia sempre da Pazuzu e spesso c’è pure la feta di mezzo.
Però ho cambiato un particolare: la pasta di base l’ho preparata io, con le mie manine di merda, perché non sopporto quelle industriali (mi fanno proprio schifo e mi sembra di mangiare aria).

La preparazione della pasta di base la trovi in questo post qui, non la ripeterò oggi, se non per gli ingredienti che devi procurarti.
Ricordati che tutti gli ingredienti è sempre meglio che non siano stati ospiti del frigo: consiglio banale, ma la temperatura ambiente è quella gggggiusta per cucinare.

Go, go, go!

FAME.

Per preparare una torta rustica con pomodorini caramellati e feta, per uno stampo da 24 cm di diametro, hai bisogno di parecchie cose.

Per la base:

  • 180 grammi di farina 00;
  • 90 grammi di burro ammorbidito;
  • 2 tuorli d’uovo;
  • 20 grammi d’acqua fredda;
  • 5 grammi di zucchero;
  • 5 grammi di sale.

Per il ripieno:

  • 300 grammi di pomodorini datterini. Se non li trovi (per me ancora non è periodo) va bene qualsiasi altro tipo di pomodorino, basta che sia dolce;
  • 200 grammi di feta;
  • zucchero di canna;
  • origano, paprika dolce;
  • olio;
  • burro per ungere la tortiera.

Innanzitutto ricordati che una volta preparata la pasta della base, questa deve riposare in frigorifero per un’ora.
In questo post qui trovi tutte le informazioni che ti servono.

Ci vediamo qui tra uno schiocco di dita.

Facciamo dunque finta che tu abbia già preparato la pasta e che stia riposando in frigorifero.
Occupiamoci di tutti gli altri ingredienti.

Taglia i pomodorini a metà.
Apri la confezione di feta e sciacquala bene sotto l’acqua corrente. Asciugala poi al meglio delle tue possibilità, usando un canovaccio da cucina (pulito, non fare come tuo solito).

Adesso preleva la pasta dal frigo e comincia a stenderla, più sottile che puoi.
Accendi ora il forno, 180 gradi, modalità statica.

Imburra la tortiera e stendici dentro la tua pasta. Con delicatezza. Bucherellala ovunque con una forchetta (anche sui lati) e poi spalma un po’ di albume d’uovo. Non ho idea se la parte dell’albume serva per davvero a qualcosa, nel dubbio io quando mi ricordo lo faccio (ma quando me ne sono dimenticata, non ho visto differenza, quindi boh).

Dovremmo essere a questo punto:

Adagia i pomodorini su tutta la superficie, a pancia in su.
Condiscili con dello zucchero di canna (io lo metto col cucchiaino, senza pesarlo, un po’ su ognuno).

Sbriciola la feta con le mani direttamente nella tortiera:

Condisci il tutto con origano abbondante, un filo d’olio non tirchio ed un po’ di paprika dolce.

Richiudi i bordi:

E possiamo andare in forno.
A 180 gradi per 50 minuti. Se vedi che sopra si scurisce troppo puoi spegnere le resistenze superiori o abbassare leggermente la temperatura.

Dovresti avere ottenuto questo risultato:

Tagliala in 4 parti, così si raffredda un po’ più in fretta, che qui non c’abbiam tempo da perdere:

Ed ora parliamo brevemente del fondo.
Ancora non mi è successo di ottenere il fondo cotto ESATTAMENTE come la parte superiore. Ho chiesto agli Azzurri di Crostate, ma non ho avuto risposta.
Diciamo che prima o poi avremo il tempo perfetto per cuocere questa crostata, per ora 50 minuti sono un tempo sicuro: la pasta sarà cotta senza essere bruciata, ma sia i pomodorini sia la feta l’acqua la cacciano eccome, quindi sotto potrebbe risultare ancora umida.

Guarda:

In realtà la foto non è realistica, sembra quasi cruda e non lo era (era croccante e mangereccia), ma ancora non sono riuscita a trovare le VERE tempistiche. Appena troverò il tempo perfetto modificherò TUTTE le ricette delle torte salate, per ora parti con 50 minuti di base e se vuoi puoi anche aumentare (ma poi dipende tanto dal forno, immagino… peccato che il mio sia nuovo di pacca ed abbia ottenuto lo stesso risultato di quando usavo il rudere tradizionale).

Fammi indovinare: sei un Azzurro di Crostata, vero?

Comunque, pignoleria a parte, siamo pronti per mangiare.

Ciao e buon appetito!

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